
Conosciamo Andrea, calabrese di origine, laureato a pieni voti in Architettura presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e con diverse esperienze all’estero.
- Quando hai capito di avere qualcosa da raccontare attraverso l’architettura?
Capisci di aver qualcosa da dire quando diventi padrone di un argomento: l’espressione e l’azione seguono la contemplazione. L’espressione e l’azione, lungi dall’essere sinonimo di personalismo, devono essere però sinonimo di ricerca del vero e con ciò intendo, nel caso dell’architettura, ricerca dell’equilibrio tra funzione e forma, a me piace pensare si tratti di ricerca dell’impersonalità attiva nelle forme. J.D. Hunt, architetto del paesaggio, che ho avuto la fortuna di conoscere non molto tempo fa negli Stati Uniti, ad esempio, usa una metafora piuttosto calzante per spiegare il concetto: “la poesia dovrebbe essere basata su una buona grammatica e abilità retorica, così come la prosa dovrebbe essere influenzata dalla poesia”. Attitudini differenti, spiega, che non si escludono, anzi, hanno bisogno l’una dell’altra. La buona architettura realizza l’empatia con l’ambiente che ci circonda, e le persone che la vivono, ovvero si integra. Gli eccessi rompono l’empatia in ogni caso: l’impersonalismo è ricerca dell’equilibrio tra prosa e poesia. In un certo senso, non capisci di aver qualcosa da dire, capisci semplicemente che c’è bisogno di farlo.
- L’Architettura è una delle arti più antiche, cosa più ti affascina di questa splendida disciplina?
La visione d’insieme. Avere una visione d’insieme è indispensabile per essere un buon architetto e realizzare buoni progetti. E’ questo che ha permesso alle grandi civiltà di avere ciascuna un proprio tratto distintivo. L’architettura è l’abito che indossano le città, è una sorta di manifesto dell’epoca corrente, che ne rivela in qualche modo la “Weltanschauung”. Soprattutto oggi, la figura dell’architetto-manager che va prendendo piede sembra mettere in primo piano “il particolare” piuttosto che “il complessivo”. Come dicevo in precedenza, è questo che conduce ad una cattiva integrazione dell’opera con l’insieme, con la conseguente perdita dell’identità locale. Le città diventano tutte uguali, riempite dalle sfolgoranti realizzazioni delle archistars. Ma la visione d’insieme, spesso, non c’è più. L’identità del luogo, con essa, scompare.
- Dal tuo Curriculum Vitae si evince che hai viaggiato molto e avuto numerose esperienze. Quale tra queste, per quanto diverse tra loro, ti ha segnato particolarmente?
Senza dubbio l’esperienza più entusiasmante è stata quella svolta negli Stati Uniti presso l’University of Pennsylvania a Philadelphia. Qui ho trascorso un semestre di “exchange” utilizzato per la redazione della mia tesi e sono entrato in contatto con una realtà totalmente diversa ed incredibilmente stimolante. La vita nei college americani ha ritmi incredibili, che però portano gli studenti a raggiungere risultati a dir poco sorprendenti. Il mio semestre alla PennDesign è stata una continuo processo di “contaminazione” grazie al quale la mia tesi si è rivelata un’esperienza unica. Ma è stata propedeutica, devo ammettere, l’esperienza “Erasmus” a Budapest, che mi ha dato la consapevolezza di quanto sia pericoloso star fermi e non avere il coraggio di rischiare. E, ovviamente, non possono non render merito all’incontro, avvenuto l’anno successivo, con il mio relatore prof. Valerio Morabito, docente presso l’università Mediterranea e l’università della Pennsylvania nonché progettista in continua ricerca e sperimentazione, grazie al quale ho avuto la possibilità di partecipare ad un workshop internazionale in Finlandia e, successivamente, di ottenere l’invito per la prestigiosa International Design Summer School presso l’università Tongji di Shanghai, in Cina. Vincendo con il mio gruppo il premio di “Best concept design”. E’ dura scegliere, ma dell’esperienza americana mi ha colpito la relazione proficua tra college e ambiente che lo circonda. Quanto al presente, mi trovo a Londra per la mia prima esperienza lavorativa, all’interno del MYAA, studio internazionale vincitore di numerosi premi tra cui il World Architecture Festival 2015: ora si fa sul serio e spero proprio che, tra qualche anno, potrò rispondere diversamente, arricchito da esperienze nuove e altrettanto costruttive.
- “… Dico inoltre ai giovani di non rassegnarsi alla mediocrità, di viaggiare per imparare le lingue e per capire gli altri e di comprendere che la diversità è un valore, non certo un problema. Inoltre viaggiare (ma sia chiaro per poi tornare) serve ai giovani per rendersi conto della fortuna che hanno avuto a nascere in un Paese come l’Italia: perché se non si va all’estero si rischia di assuefarsi alla nostra grande bellezza e a viverla con indifferenza”.
Questo è quanto sostiene l’Architetto e Senatore a vita Renzo Piano. Cosa pensi in merito sulla base anche delle tue esperienze fuori dall’ Italia?
Purtroppo, molte esperienze all’estero nascono proprio come “fuga dalla mediocrità” che spesso affligge ampi settori del nostro paese. E’ vero, esiste il rischio di assuefarsi alla nostra “grande bellezza” ed è altrettanto reale la crescita della consapevolezza della propria identità che viene spesso fuori dallo scambio se vissuto nel modo giusto, attivo e non passivo. Ma è, dunque, solo vivendo il “viaggio” nella maniera corretta e non come fuga che si mettono a frutto i suggerimenti del tutto condivisibili di Renzo Piano.
- Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Come anticipavo precedentemente, ciò di cui sono attualmente alla ricerca nell’immediato è un’esperienza costruttiva, che mi metta alla prova sul campo e mi faccia crescere professionalmente dopo esser cresciuto a livello formativo. In questo si sta già rivelando molto utile l’esperienza a Londra con MYAA. Stando in contatto quotidianamente con il direttore Ali Mangera,architetto di grande esperienza, sto imparando molto sotto tutti i punti di vista, dalla progettazione alla gestione di un grande studio. Concordando con la frase di Piano, è chiaro che l’intenzione è quella di mantenere la promessa che anche io, come molti, ho fatto a me stesso: quella di continuare il percorso in Italia, convinto che ognuno col suo lavoro può dare un piccolo o grande contributo al suo paese. A lungo (spero, non troppo) termine, l’idea di uno studio mio, ovviamente, mi affascina, per dare la possibilità ad altri giovani di partecipare a questo sogno che è l’architettura.